lunedì 24 novembre 2008

Istante per istante...

L'acqua continuava a scorrere sul bordo della strada, formando un piccolo torrente dalla forma curiosa e tipica dettata dalle asperità del terreno. Aveva appena piovuto in modo esagerato ed improvviso, cogliendo tutti di sorpresa. L'acqua che scorre, quando non crea danno, suscita una piacevole sensazione di vitalità e di cambiamento, di evoluzione delle cose.
Marco era rimasto qualche istante ad osservarla, quasi incantato, riparato dentro l'androne di un portone, per distrarsi un istante dalle sue faccende. Trovava piacevole soprattutto vedere come la pioggia in breve tempo aveva cambiato l'aspetto di quel luogo cittadino, facendolo assomigliare improvvisamente e magicamente ad un viottolo di campagna. A volte le cose sono così statiche da annoiarci, e quando siamo stanchi di vederle così, sembra che solo andando in altri luoghi possiamo ritrovare nuovi stimoli. In quel caso invece era stato il tempo, che cambiando umore per seguire le sue leggi e i suoi modi, aveva offerto un nuovo scenario a chi era capace di fermarsi ad osservare.
Alcuni bambini giocavano a nascondino con la pioggia, affacciandosi per qualche istante da sotto un balcone per bagnarsi un poco e subito ripararsi, ridendo di gioia per la piacevole sensazione del bagnarsi e del sentirsi liberi. Marco si ricordò di avere avuto esperienze simili a quelle, durante la sua infanzia, e tutto questo aumentava la curiosità ed il piacere del rimanere lì ad osservare.
Tutto scorreva in modo semplice e naturale, e Marco si stupiva nel pensare a come di solito, nel passato, era stato così impegnato nel fare le cose serie ed importanti della vita, come studiare, lavorare, costruire una posizione sociale, guadagnare, occuparsi degli altri. Ora no, non si sentiva più così indaffarato, e si rendeva conto che da tempo la sua vita era cambiata, e che non sentiva niente di particolare che lui dovesse raggiungere, se non vivere istante per istante.
Era come se da qualche tempo avesse avuto una guarigione del suo cuore, e le cose per lui fossero molto cambiate. Il suo stato d'animo si era pian piano trasformato, fino a dimenticare del tutto ciò che un tempo era per lui di primaria importanza. Il cambiamento era stato così dolce e graduale, che ora si ritrovava ad osservare il suo nuovo modo di essere come se questo avesse trovato posto nella sua vita senza che lui avesso dovuto fare uno sforzo per accoglierlo.
La pioggia aveva diminuito la sua intnsità, e così il ruscello. Meno male, perchè la pioggia era stata molto intensa e non avrebbe potuto essere accolta senza qualche problema se fossa continuata a scendere così intensa. Per fortuna le cose della natura spesso sono benevole, e portano evoluzioni che risultano alla fine positive. Ma tutto questo rischia di passare inosservato, fino a quando incominciamo quasi per caso, a sentire il richiamo di qualcosa che, in modo sottile, vibra dentro, stimolandoci ad una pausa più profonda, che ci incoraggia quindi al desiderio di percepire vibrazioni ancora più sottili e tenui. Sono le vibrazioni sottili dell'anima, che dentro di noi giace in un luogo di pace, e dove più nessuna idea di distruzione riesce a fare accesso. E' il luogo del nostro spirito, dove possiamo ricevere la consolazione dalle nostre angosce. Il quel luogo, dopo esserci avvicinati, sentiamo di voler tornare, e qualche volta lasciamo che sia il caso a ricondurci li. Altre volte, decidiamo di prenderci cura di noi e della nostra vita, e scegliamo di metterci noi stessi nella condizioni di ritornarci. Il più spesso possibile, tanto quanto ne abbiamo bisogno.
Puoi chiamare questo meditare, o puoi anche dargli un altro nome. Non è importante che etichetta gli metti. L'importante e che tu abbia compreso a quale esperienza ti sto invitando.
Con affetto, Enrico.

sabato 22 novembre 2008

Il grano e la zizzania.

Il seminatore sparge il seme buono dentro di noi: siamo capaci di iniziare opere buone. Durante la notte il nemico sparge i semi di un’erba maligna dentro di noi: siamo capaci di perdere il controllo del nostro buon proposito e di vivere la nostra negatività.
E’ il momento in cui ci scandalizziamo, e nel tentativo di estirpare l’erba cattiva dentro di noi estirpiamo il nostro grano: siamo capaci di interrompere la nostra opera.

Lascia crescere sia il grano che l’erba. Sarà il Padre Celeste nella sua bontà a prendere te con le tue opere buone alla fine della tua vita, gettando via il male che c’è in te.

PROSEGUI NEL TUO CAMMINO SENZA SCADALIZZARTI DI TE STESSO NEANCHE QUANDO MANIFESTERAI IL TUO LIMITE.
ACCETTATI IN PROFONDITA’ E CONTINUA A VIVERE IL TUO PROGETTO.

Con affetto, Enrico.

La vigilia di natale.

Cammino tra la folla la sera del 24 dicembre nella via Garibaldi a Cagliari, notoriamente luogo di shopping nella mia città, che per il natale diventa se possibile ancora più la meta di frenetiche galoppate verso l’acquisto dei più svariati oggetti da possedere o regalare. A volte sogno di assistere alla più grande crisi economica della storia, che costringa le persone a fermarsi, ma poi penso che troppe persone cadrebbero in un doloroso disastro emotivo, eccessivo per le loro vite impreparate a ritrovare se stesse, e la compassione mi fa cambiare desiderio. Penso alla mia infanzia fatta di lunghissimi tempi passati nei negozi dove i miei genitori cercavano di fornirci di un grande quantitativo di benessere materiale, facendo a me personalmente sperimentare la più grande pena della mia vita. Cammino tra la folla insieme alla mia figlia Monica, da poco rientrata da Milano dove studia, per trascorrere le vacanze natalizie, e mentre cammino un po’ sto con lei ed un pò rimango assorto nei miei pensieri mentre osservo le persone ed i luoghi. Era da qualche mese che desideravo comperare l’ultimo libro di P. Laurence, "Gesù, maestro interiore", e volutamente ritardavo l’acquisto, nell’attesa di un momento più adatto per leggerlo. Da diversi anni mi piace trascorrere i periodi di riposo in tranquillità, accompagnato dalla lettura di qualche libro sulla meditazione o sulla ricerca spirituale, ed ora di nuovo finalmente è arrivato uno di quei periodi dell’anno adatti a questo scopo. Questa personale abitudine scaturita spontaneamente dal mio profondo è uno dei pochi “luoghi” che sento veramente mio, a volte confuso e sommerso da una grande quantità di altri “luoghi” non miei e che ho difficoltà ad eliminare. Penso al vero sé ed ai falsi sé che caratterizzano la mia vita. Ringrazio me stesso e la pratica della meditazione che mi ha condotto verso un mio personale centro, anche se ancora troppo confuso tra tutti gli aspetti di me che senza saperlo ho dovuto trapiantare nel mio essere per soddisfare le aspettative di altri, principalmente dei miei genitori, che hanno favorito dentro me la creazione di distorte e violente immagini di realtà.
Cammino nella via Garibaldi mentre tra le mani delicatamente stringo il libro appena acquistato, che tengo come un prezioso tesoro, pensando che potrò nei prossimi giorni leggerlo con calma, assorbendo i vissuti delle preziose esperienze di P. Laurence, che avendo frequentato in numerosi ritiri, mi sembra di sentire più come un amico che un maestro. Mentre cammino scorgo quasi per caso la figura di una persona che ho conosciuto tempo prima per amicizie comuni in non so quale circostanza. E’ una persona ipovedente. A vederlo sembra più cieco che ipovedente, con gli occhi visibilmente alterati dalla sua malattia. Cammina da solo con passo tranquillo ma sicuro, con la testa leggermente girata da un lato, per la necessità di intravedere qualcosa con la parte di vista rimasta. Mi ricordo che mi aveva raccontato che gli è rimasto solo un frammento di campo visivo, con il quale riesce a percepire pur confusamente delle immagini sfuocate, come delle ombre. Sfrutta quel frammento di campo visivo per muoversi. Si capisce che procede cercando di evitare il contatto con le persone che incrocia nella folla, avvertendo la loro presenza dalle ombre. Questa esperienza mi riporta ai miei pensieri, e stimola in me una riflessione sul significato della nostra vita terrena. Mi viene da pensare che tutti noi, quando senza porre attenzione proseguiamo in modo automatico verso il soddisfacimento di desideri di sicurezza materiale vissuti in modo automatico, siamo i veri ciechi. Fin dalla nascita il bambino ricerca la possibilità di sopravvivere che non possiede con tutta l’energia che ha, avvantaggiato normalmente dal fatto che i nostri cari a modo loro ci amano e tengono alla nostra presenza. L’istinto ci tira verso questo egoistico ma naturale bisogno, che per fortuna cresce insieme ad un altrettanto naturale desiderio di trascendenza, che ci stimola ad una più o meno consapevole ricerca di crescita spirituale. Tutto procede spesso per lunghissimi anni, fino a quando non capita qualcosa, un evento, che ci costringe a rivedere la nostra posizione.
Quando abbiamo l’occasione di un problema fisico, come la persona ipovedente di cui parlavo, non possiamo più procedere in automatico. O ci fermiamo atterriti nel nostro vittimismo che ci porta a pensare che non è giusto ciò che ci capita, o iniziamo a vivere con un’estrema attenzione in ciò che facciamo. Siamo costretti ad incominciare a fare molta più attenzione a noi stessi ed agli altri. Siamo costretti a percepire in un modo nuovo la vita ed il mondo. Penso che sia il caso della persona di cui sto parlando, che mentre diventa cieca comincia a vedere più chiaramente la verità della propria essenza, e del significato della sua vita. Sceglie di proseguire il cammino della propria vita facendo una continua attenzione a ciò che fa, senza potersi distrarre.
E’ da questa continua distrazione in cui siamo immersi che abbiamo bisogno di uscire, per potere riprendere a percepire noi stessi nel profondo. Abbiamo bisogno di abbandonare la paura del disastro materiale per potere percepire più chiaramente che non siamo nulla, se ci allontaniamo da colui che solo può darci il senso della nostra vita. Abbiamo forse il bisogno di entrare nel disastro per non averne più paura. Dentro questo disastro incominciamo a conoscere aspetti di noi stessi rimasti per lunghissimi anni in ombra. Sono le nostre zone d’ombra, luoghi che abbiamo paura di conoscere per il timore di non potere resistere al dolore. Ma poi capiamo che il dolore è solo un infantile paura di non potere soddisfare il nostro bisogno di sopravvivere. E’ una paura ingenua: dopo essere nati per grazia di qualcun altro, ci attacchiamo eccessivamente ad una vita nostra in un corpo che è solo in prestito. Confondiamo il vestito con l’anima che muove quel vestito. Ci preoccupiamo eccessivamente per il nostro corpo perché è la cosa che ci caratterizza, e quella che più facilmente abbiamo la possibilità di percepire. Dimentichiamo di essere alla presenza di colui che ci ha creati, e che non dimentica mai, neanche per un solo istante, che ci siamo.
E’ interessante vedere come abbiamo bisogno di una difficoltà cronica per potere incominciare a ritrovare noi stessi, rimasti a lungo smarriti e distratti dal fatto di essere riusciti a trovare pieno soddisfacimento dei nostri bisogni di sopravvivenza.
Ho voglia di dire basta, basta! Voglio giocarmi tutta la mia vita nella continua ricerca di Dio. Nella ricerca di me stesso, della parte più profonda del mio essere. Lo so, questo comporta ulteriori distacchi, forse ancora più grandi di quelli che ho già vissuto, ma è l’unica strada che oramai per me abbia un senso. Mi rendo conto che ho appena iniziato a fare la mia vita, e che per gran parte del tempo non riesco ancora a farla. Mi piacerebbe compiere questo cambiamento come conseguenza di una saggia consapevolezza, più che per drastici ridimensionamenti che a volte io, in modo poco compassionevole, auguro ad altri.
Signore, tante volte ho detto sono tuo, ed ho invocato la Vergine Maria per essere aiutato o per ringraziarla. Mi sento pronto ad essere. E allo stesso tempo so di non sapere ciò che sto chiedendo. Ma è proprio questa la consapevolezza più grande, la coscienza di non sapere cosa chiedere, la consapevolezza d’essere cieco. Ma Tu, mentre mi fermo nel bordo del silenzio della meditazione, con gemiti inesprimibili del tuo Santo Sprito, me lo sussurrerai. Mi farai capire ciò di cui ho veramente bisogno.

La religiosità della vita.

Un uomo cammina frettolosamente per le vie della città, immerso nei suoi pensieri e preoccupazioni per i tanti impegni della giornata. Attraversando una piazza affollata ad un certo punto si lascia attrarre da una fontana, e ispirato dal desiderio di calma, si lascia andare e si siede. Mentre passano i minuti si accorge di quanta calma può trovare dentro di sé, e osserva gli altri con piacevole distacco mentre corrono indaffarati, come se nulla più potesse travolgerlo. Il suo respiro diventa lento e profondo, i suoi muscoli lentamente si rilassano, e i pensieri cominciano a fluire in modo più regolare. Comprende che nulla dei vari impegni della giornata è più importante di quel momento di contatto con la sua consapevolezza del presente, quel presente che è sempre accanto a lui, e che spesso distrattamente non vede.

Un uomo primitivo camminando nella foresta, arrivata la sera si trova di fronte al meraviglioso spettacolo del tramonto, con i suoi colori e forme, e ispirato da tanta bellezza e grandezza, istintivamente si inginocchia, e si china in avanti, per farsi accarezzare da quel tramonto specchio dell’immensità, così come un bambino si accovaccia per gustarsi le carezze della mamma.

Una donna in conflitto con il marito, durante una accesa discussione diventa consapevole della sacralità di quella relazione, e di colpo smette di analizzare con eccessiva puntigliosità i problemi. Si ferma con lui per comprenderlo ed ascoltarlo, creando una situazione di intimità di cui lei stessa si nutre.

Un atleta corre nella sera lungo un viale alberato, e mentre corre all’improvviso girato l’angolo vede di fronte a lui appena sopra la montagna una enorme luna piena color arancio, che maestosa si staglia nello sfondo di quel scenario naturale. Pur preoccupato di rispettare le tabelle di marcia del suo allenamento programmato, improvvisamente desidera fermarsi per osservare tanta meraviglia della natura, consapevole che qualcosa di molto più grande di lui nel creato lo avvolge e lo conduce.

Un bambino incompreso nelle sue richieste dal padre, si rende conto della importanza che hanno per lui le sue richieste, ma comprende che in quel momento continuare a insistere non servirebbe a portare avanti i suoi bisogni. Decide di non rinunciate a portare avanti i suoi bisogni, ma sceglie di trovare con calma un muovo modo e un nuovo momento per promuoverli.

Un religioso cammina verso la cappella per trovare silenzio e profondità. Mentre medita, abbandona tutti i pensieri e le preoccupazioni. Quando il confratello comincia a leggere le scritture, ascolta con piena attenzione quelle parole sacre, nella certezza di sentire e capire il messaggio essenziale che il Padre celeste desidera comunicare con la sua rivelazione.

Un padre di famiglia si trova in difficoltà perché si rende conto che le richieste aumentano, e il suo tempo libero si restringe sempre più. Tentato di disinteressarsi dei problemi che incombono, si rende conto all’improvviso che la sua stessa realizzazione passa attraverso la dedizione amorevole delle necessità della moglie e dei figli. Di colpo realizza che non c’è niente di più importante per lui che stare con loro per pianificare insieme le soluzioni ai vari problemi. Un senso di calma e soddisfazione lo pervade nel vedere i loro volti gioiosi mentre lui dona loro ciò che nessun altro potrebbe dare loro nello stesso modo.

Un giovane desideroso di cambiare radicalmente la sua vita, si blocca per il timore di soccombere nel suo difficile tentativo. All’improvviso, mentre sta immerso nel silenzio della stanza in un pomeriggio autunnale, la speranza lo cattura, e come illuminato dalla consapevolezza della importanza della sua vita, decide di assecondare il suo progetto interiore, e fatta la valigia, parte per la sua meta con quel poco che ha.

Un sacerdote in crisi vocazionale, ferito nel profondo perché tutti i suoi propositi umani non hanno trovato realizzazione e compimento, accetta di rimanere lì, nel suo nulla, per fede nell’amore universale ed incondizionato di Dio.

Semplici flash di vita quotidiana, dove la consapevolezza spirituale emerge nel cuore e nella mente di ciascuno di noi.

Quanto siamo capaci di lasciare emergere la consapevolezza del nostro essere nel momento presente, ogni volta che compiamo un rito religioso?
E quanto lo facciamo in ogni atto della nostra vita?
Che cosa rende sacro il mio quotidiano?
Cerco la sacralità della vita nelle cose semplici del mio presente?
Riesco a trovare la presenza di Dio nei piccoli gesti?
Mi sento confortato dalla consapevolezza della presenza continua dello Spirito nella mia vita?
Sono capace di andare al di là del mio timore di essere giudicato nel momento in cui realizzerò il mio progetto?
A che punto sto con la mia crescita interiore?

Per chi è interessato è possibile partecipare ad un incontro di meditazione. Per informazioni: Enrico Loria 070.504.604 – 360.914953 –

centro.poiesis@tiscali.it
www.centropoiesis.it

Corpo e spirito.

Meditare per trovare una vita interiore, per sperimentare una dimensione diversa da quella che la coscienza razionale ci consente. Andare al di là della propria conoscenza, per immergersi nello spirito che costantemente soffia dentro di noi, e che passando dentro di noi trabocca dal nostro essere. Vivere una vita contemplativa, per riscoprire il significato profondo della nostra esistenza. Ritornare alla vita attiva quotidiana come esseri profondamente rinnovati, capaci di capire, di vedere, di sentire ciò che più conta nella nostra vita.
Meditare per prendersi cura di sé, per compiere il cammino per il quale siamo stati creati. Meditare per scoprire perché il nostro corpo è così importante. Conoscere il motivo per il quale il nostro corpo ci è stato donato, e quanto preziosa sia la nostra vita, ogni minuto della nostra esistenza.

Forse ti sei chiesto quale sia il mistero racchiuso nella tua presenza terrena, e forse non hai trovato una risposta chiara a questo interrogativo. Può darsi che tu abbia pensato che non valeva la pena vivere, nei momenti difficili della tua vita, o semplicemente hai pensato che tutto sommato morire poteva essere una liberazione. Se lo hai fatto, è perché evidentemente hai realizzato che la tua vita, come quella degli altri, è immersa in una realtà di sofferenza. Non hai più potuto nasconderti che la civiltà che viviamo è di basso livello, e che non riusciamo a scampare dalle vicissitudini terrene. Magari hai poi trovato il modo di ingannarti, nascondendoti subito dopo la sopraggiunta consapevolezza, cercando di gratificarti come potevi. Hai cercato di dimenticare. Penso di capirti.

Prova a pensare che il tuo corpo, così come tu lo hai adesso, qualsiasi sia il livello di salute o di malattia che vivi, è stato creato per darti un’opportunità di crescita interiore. I tuoi organi, il funzionamento del tuo organismo nel complesso, sono strumenti ed occasione di crescita spirituale. Ogni parte del tuo corpo racchiude in sé un significato profondo. Ogni parte del tuo corpo è collegata ad aspetti profondi del tuo sé. Ascoltare e capire il tuo corpo è una occasione per capire qualcosa del tuo cammino terreno. Ogni minuto che vivi, è un momento di potenziale crescita, qualsiasi sia il tuo stato di coscienza. Un embrione che si forma dentro il ventre materno, che nasce e vive qualche minuto, ha già compiuto un passaggio che può essere fondamentale verso il definitivo incontro con l’assoluto. Una persona compromessa nelle sue funzioni mentali per una grave malattia, magari in coma, sta compiendo un cammino spirituale che può essere di importanza fondamentale rispetto allo scopo per cui è stata creata. Una malattia che sopraggiunge nella nostra vita, è venuta a “farci da sponda” rispetto al desiderio conscio o inconscio che si compia in noi la potenza dello spirito di Dio. Capire il significato di quel sintomo e cogliere i frutti di tale comprensione diventa quindi preziosissimo fattore di crescita interiore.

Per potere capire ed accettare tutto questo è necessario che tu sia già arrivato ad immergerti dentro la nube che della non conoscenza che ti separa da Dio; è necessario che abbia avuto l’occasione di poter sperimentare la dimensione contemplativa dell’ascolto di Dio. Se non hai ancora vissuto questo, inizia a meditare per qualche minuto al giorno, e trova un piccolo gruppo di persone con cui condividere la tua esperienza di meditazione. Non è possibile infatti potere spiegare le cose che hai letto in questa pagina. Puoi solo ritrovarle vere se tu stesso hai fatto l’esperienza di meditazione profonda.
Non posso aggiungere altro che non sia inutile rispetto al desiderio che ho per te che tu possa trovare la tua strada interiore, perché anche tu possa fare l’esperienza di pace ed amore incondizionato che si trova andando al di là di qualsiasi conoscenza, di qualsiasi convinzione. Puoi crederlo o no, ma in questo momento provo un grande amore per te. Ti auguro ogni bene.

Cammino lungo la riva del mare.

Cammino lungo la riva del mare, così come da alcuni anni mi piace fare. Mi piace perché riesco a camminare e meditare. Cammino e medito dentro di me: ”Signore Gesù, abbi pietà di me, Signore Gesù, abbi pietà di noi”.
Cammino lungo la riva del mare, e mentre medito mi guardo intorno: vedo le persone che stanno intorno a me. Anche per loro dico dentro me: ”Signore Gesù, abbi pietà di noi”. Ogni tanto incontro qualcuno, ed è sempre un piacere parlare con loro. Quando li saluto per andar via, rincomincio a meditare: “Signore Gesù, abbi pietà di me”.
Cammino lungo la riva del mare, e mentre cammino e medito, rimango incuriosito dal mare. Rimango incuriosito perché lo vedo infinito ed inconoscibile nella sua profondità. Mi ricorda Dio, davvero infinito ed inconoscibile nella Sua profondità. Vedo la superficie, e so che la mia conoscenza del mare non si può limitare a ciò che vedo. E’ forse per questo che mi piace meditare, perché è come una immersione profonda, con le bombole di ossigeno. Si conoscono cose che non possono essere viste da chi rimane a guardare la superficie.
Continuo a camminare lungo la riva del mare, e mentre cammino e medito, guardo la terra al mio fianco, così come la sento sotto i miei piedi, che mi sorregge. Sento, avverto il contatto che mi procura nel camminare. Faccio attenzione a questo contatto mentre respiro e medito, mentre dico dentro di me: “Signore Gesù, abbi pietà di me”. So che anche la terra è così vasta e impenetrabile da rimanere in gran parte inconoscibile, nella sua ricchezza e varietà.
Mentre continuo a camminare e meditare mi accorgo del cielo sopra di me, che con gli sprazzi di nuvole diventa più percepibile nella sua infinitezza. Ricordo che da bambino mi colpiva guardare il cielo, quando il sole della sera cominciava a dipigere le nuvole di rosa. Il cielo, che dà continuità alla mia vita che scorre, e mi ricorda dell’amore di Dio, stabile nel tempo. E’ forse per questo che lo guardo al mattino quando inizio la giornata. Guardo e ascolto. Ascolto i rumori attorno a me, del mare, delle persone, le voci, ed i rumori che vengono da lontano, di una macchina, di un aereo.
Continuo a camminare lungo la riva del mare, e sento che è davvero bello continuare a farlo. Percepisco dentro me, in un colpo solo, la presenza di cielo, terra, mare, persone e Dio dentro me. Sento i rumori ed i suoni, mi nutro del contatto della terra sotto i piedi, cerco di percepirlo il più intensamente possibile. Sento l’aria che scorre attorno a me. Allargo un po’ le braccia e le dita delle mani per sentirla ancora di più, come una carezza che il vento regala al mio corpo. Sento di avere davvero bisogno di carezze. Mi nutre continuare a dire dentro me: “Signore Gesù, abbi pietà di me”.
Il mare con le sue onde, accarezza i miei piedi e li rinfresca, dando refrigerio anche al resto del corpo. E’ davvero bello continuare a camminare lungo la riva del mare.
Qualche volta ho incontrato anche te, caro amico, mentre meditavo e camminavo, sulla riva del mare. Ogni volta è un piacere rivederti. Ricordo della nostra amicizia nata nelle tante esperienze passate insieme ai tempi dell’università. Anche a te, come alle altre persone che incontro, non ho detto che stavo meditando, che stavo pensando a Dio mentre camminavo. Eppure so che con te potevo farlo, che avresti capito, e condiviso. Sento che anche tu hai attraversato il deserto, ed hai trovato il campo fertile dove fare germogliare il tuo seme. So che anche tu hai scoperto la presenza di Dio dentro di te. Ricordo della mia e della tua sofferenza, vissuta con discrezione, con dignità. La stessa discrezione ci accompagna, nel modo delicato di porci rispetto alle questioni importanti. Nel nostro dialogo. Ricordo quanto è stato importante il nostro incontro: da quel momento è cambiato qualcosa nella nostra vita.
Cammino lungo la riva del mare, e mi accorgo di essere arrivato molto lontano, passo dopo passo. Mi fermo per qualche istante, respiro più profondamente, continuo a ripetere dentro me: “Signore Gesù, abbi pietà di me peccatore”.
Sono davvero arrivato molto lontano. Mi volto indietro e rivedo quel bambino che ero. Ricordo di avere avuto paura di andare avanti, di avere pensato di non farcela. Ed invece sono qui: ce l’ho fatta. Ricordo di avere invocato il Tuo aiuto Signore, tante volte, così come adesso. Ho chiamato tua mamma, Maria, madre di tutti gli uomini, madre anche mia. E lei mi ha sempre ascoltato ed aiutato. Ecco come sono arrivato fino a qui. Mi guardo intorno, e vedo quanti doni mi ritrovo! Mi concedo il tempo per ringraziarti o Signore, prima di continuare a camminare lungo la riva del mare.
Forse quando ti rincontro caro amico, questa volta te lo dico che stavo pensando a nostro Padre. Perché anche tu possa viverlo insieme a me, e forse fare la stessa mia scelta. Anche tu come me porti dentro il tuo cuore il ricordo, l’esperienza di averlo avuto vicino a te, tante volte. E questo ricordo rimane dentro il tuo cuore, così come nel mio. La tua gioia di bambino rimane dentro il tuo corpo adulto, cosi come i momenti passati insieme a lui.
Rincomincio a camminare lungo la riva del mare, continuando a ripetere: “Signore Gesù, abbi pietà di noi”. Respiro, cammino, e continuo a sentire Te dentro me, mio Signore, come un viaggio con un tragitto ignoto, ed una fine certa. Il paradiso.
Anche lì so che c’è una riva del mare, dove potere continuare a camminare, per incontrare tutte le persone che abbiamo perso. Le abbiamo perse perché sono andate nella loro riva del mare, per camminare, ed incontrare. Per crescere ed arrivare, là dove Tu vuoi che andiamo, per trovare Te. E’ bello pensare di incontrarle una ad una, per potere finalmente dirsi tutto ciò che non si è ancora detto. Per potere sentirsi davvero uniti, nel profondo, così come non è mai stato.
Ma ora mi voglio fermare per ascoltare, per rileggere le parole che ho scritto, e continuare a sentire ciò che sento. Anche tu se vuoi, rileggi queste righe tante e tante volte, finchè avrai capito ciò che hai bisogno di capire, finchè avrai sentito ciò che hai bisogno di sentire dentro il tuo cuore.
E dopo avere letto vai anche tu sulla riva del mare, e fai attenzione al contatto che il camminare ti procura; fai attenzione al tuo respiro, e ripeti dentro il tuo cuore: “Signore Gesù, abbi pietà di me”.

Aiutiamo Gesù a ritornare.

Sento la gioia del mattino del nuovo giorno, nel nuovo anno che comincia. Inaspettatamente mi sono svegliato presto, ed ho voglia di riprendere a vivere immergendomi nella vita concreta. Non avvertivo così chiaro questo desiderio da anni. Ho attraversato una fase di cambiamento profondo.
E’ oramai chiaro per me che l’unica cosa che veramente conti sia la vicinanza a te, Signore. Ti trovo nell’esperienza concreta della vita quotidiana, dopo averti trovato nel silenzio della meditazione.
Ma come posso pensare che tu ritorni? Se tu tornassi ora, dove potresti trovare il tuo posto?
Se tu tornassi nella chiesa che hai fondato, saresti il fratello di una parte dell’umanità e quindi non saresti il Cristo. Lo stesso vale se tu tornassi in un’altra chiesa. Se tu tornassi al di fuori di tutte le chiese, dovresti ripetere l’esperienza che hai già fatto, iniziare daccapo. Tra duemila anni forse ci ritroveremo al punto di oggi. Non ha senso. Ti sei già rivelato. Ora spetta a noi mettere in pratica il tuo messaggio.
E’ incredibile, ma mi rendo conto che nonostante il cammino dell’umanità, ancora non siamo pronti al tuo ritorno. Essere uniti nella comune umanità in Cristo. Essere uno con l’altro.
Come posso pensare allora che tu ritorni? Penso e ripenso alle parole di padre Thomas Matus OSB: un cristiano, un induista, un mussulmano quando pregano lo fanno in un modo molto diverso tra loro. I loro riti sono diversi così come le loro culture e tradizioni. Ma quando meditano, quando s’immergono nell’esperienza di Dio dentro sé, arrivano nello stesso luogo.
Quando arrivano all’esperienza della contemplazione, in quel “luogo” fanno qualcosa che li rende profondamente uguali, profondamente uniti. Lo Spirito che li anima è lo stesso, perché sono immersi al di là della nube della non conoscenza. Sono profondamente immersi nel luogo dove non esistono differenze, dove non esiste contrasto. Essere uno con il divino amore è l’esperienza definitiva, perché essere in Dio significa essere dove non possiamo essere ne migliori ne peggiori.
Il mondo della religione è il luogo della conoscenza, che può essere vissuta con la mente e con il cuore, e che ci può rendere il cammino di crescita spirituale più umanamente chiaro. Sono felice di avere la mia pratica religiosa, senza la quale non avrei saputo come iniziare il cammino. Con la mia religione posso arrivare al desiderio spirituale della vicinanza a Dio. Il cammino nel sentiero spirituale diventa intricato e complicato dalla mia umanità, i miei vissuti psicologici, e dalle difficoltà della vita concreta che continuamente mi distraggono da me stesso. Ed allora solo fermandomi ad ascoltare la parte più profonda di me, solo coltivando la mia vita interiore, avendo cura di proteggerla dalle distrazioni della vita quotidiana, solo così posso veramente incontrarti Signore.
Allora penso che perché tu possa tornare, abbiamo da compiere quel che tu hai proposto: amarci l’un l’altro. Essere uno con l’altro, così come è in paradiso.
Il paradiso è il luogo dove si vive in un modo che corrisponde esattamente a ciò che dentro me stesso più desidero, ed è il luogo che corrisponde esattamente a ciò che più desidera l’altro. Io e l’altro siamo profondamente uniti.
Per arrivare a questo è necessario che l’Io sia integrato nel Vero Sé. Il vero sé, la parte più profonda di noi stessi, che continuamente ci attira a sé, anche quando non la ascoltiamo.
Solo allora potrai tornare, per condividere con noi il tuo amore altruistico e disinteressato. Per vivere con noi ciò che tu hai rivelato.

Come meditare.

Scegli un posto tranquillo della tua casa, o da qualsiasi parte tu voglia, al chiuso o anche all’aperto. Se vuoi avere un aiuto per la fine del periodo di meditazione usa una sveglietta da programmare, che suonerà per avvertirti che è finito il tempo. Stai seduto, in silenzio, con i piedi poggiati per terra per potere avvertire il contatto col pavimento. Se è possibile fallo con i piedi scalzi. Fai attenzione che la tua schiena sia dritta, anche se appoggiata sullo schienale, senza forzature, in modo naturale. Lascia cadere le tue braccia rilassate, con le mani poggiate sulle tue gambe. Fai alcuni respiri lenti e profondi, e poi respira normalmente mentre tieni gli occhi chiusi. Continua a ripetere dentro te il mantra per tutto il tempo della meditazione, nella tua mente o nel tuo cuore, come ti viene più naturale. Se ti viene qualche pensiero o qualche sensazione fisica, semplicemente continua a recitare il mantra, senza preoccupartene. Se non hai già un mantra, puoi provare con la parola sacra maranathà, che in aramaico significa “vieni signore”. Continua dolcemente ma fedelmente a rimanere sul mantra: ma-ra-na-thà. Inizialmente fai la meditazione per dieci minuti, aumentando progressivamente il tempo quando sarai allenato per arrivare a 25-30 minuti di meditazione silenziosa.
Alla fine del tempo fai di nuovo alcuni respiri lenti e profondi, e lentamente apri gli occhi mentre cominci a muovere lentamente le dita delle mani e dei piedi. Dolcemente riprendi contatto con la realtà attorno a te.
Medita se puoi tutti i giorni, e nei periodi in cui senti più il bisogno di crescere, o di avere un aiuto spirituale, medita più volte al giorno. Per esempio, durante i periodi di riposo dal lavoro o dagli impegni, dedicati a te stesso meditando di più, come in una sorta di ritiro spirituale autogestito. Lasciati guidare dallo spirito perché tu possa trovare qualche lettura adatta a te in quel momento, qualche libro che ti capita tra le mani e ti colpisce. I frutti di quel periodo saranno a te utili quando tenderai a riprendere le attività quotidiane più intensamente, e quando di conseguenza avrai meno tempo per arricchirti in profondità. Se vuoi, in questi periodi particolari di riposo, oltre a meditare fai anche un po’ di digiuno, senza esagerare.
Tutto ciò ti aiuterà a trovare più in profondità te stesso, il tuo vero sé. Ma non avere fretta, perché i risultati della meditazione non sono subito avvertibili, in quanto con essa ti rechi al di là della conoscenza. Il cambiamento quindi non è subito avvertibile dal tuo intelletto.

Perchè non possiamo vedere Dio.

Siamo chiamati a fare scelte definitive.
Fare una scelta definitiva presuppone fare una scelta d’amore. Ovvero, essere talmente convinti di quella scelta che siamo capaci di accettare e superare la frustrazione che deriva da quegli aspetti della scelta che non ci gratificano. Evidentemente, le cose che per noi vanno bene dopo una scelta, ci consentono di andare avanti e ci confermano nella speranza di un buon esito. Al contrario, le difficoltà ci mettono alla prova e ci rendono a volte dubbiosi sull’opportunità di procedere. Fare scelte definitive quindi non è facile.
La partecipazione ad un gruppo sociale di qualsiasi tipo (coppia, famiglia, amici, colleghi, confratelli) comporta attraversare momenti che non ci piacciono, ed allora una possibilità è di chiudersi nella relazione, di andare via, o di non tornare più.
La ricerca che ciascuno di noi fa per “trovare la propria vita” presuppone appunto l’attraversare questi momenti un numero sufficiente di volte che consenta a ciascuno di noi di trovare ciò che sembra essere adatto a noi. E che quindi liberamente è scelto.

Il cammino della vita che ci orienta verso scelte definitive, è un cammino che ci orienta verso scelte d’amore. Questo perché amare qualcuno significa mantenere il proprio atteggiamento di disponibilità, dialogo, apertura, sostegno, richiesta, condivisione, anche quando l’altro compie un’azione che ci ferisce. Dopo che siamo stati feriti, è difficile sia dare ancora, sia chiedere ancora.
Mi riferisco in questo discorso all’amore altruistico ed incondizionato, che si differenzia dall’amore erotico perché in questo secondo caso cerchiamo il reciproco nutrimento, un reciproco gratificarsi, e se diminuisce la gratificazione diminuisce anche il sentimento d’amore. Le scelte d’amore altruistico sono portate avanti anche quando l’altro non ci ricambia. Tutti abbiamo bisogno di vivere quest’amore incondizionato, perché è quello che ci dà la sensazione di “essere tornati a casa”. L’amore incondizionato è l’amore di Dio, che continuamente ci attira a sé. Noi possiamo vivere un analogo amore altruistico se siamo capaci di rimanere in relazione con l’altro anche quando l’altro ci ferisce con le parole, con i gesti, con i comportamenti, o con le omissioni. Porgere l’altra guancia, accettare gli sputi con la faccia come di pietra così come nell’esperienza della passione di Cristo, è il momento cruciale della nostra esperienza terrena, quella che presuppone l’essersi distaccati dalla propria egoistica volontà, quella che comporta la morte di un aspetto del proprio Io, quella che prelude alla rinascita e alla resurrezione del proprio sé più profondo, che è connesso con lo spirito di Dio da cui si nutre.
Tutto ciò può fare spavento. Ma la realtà è che per vedere Dio dobbiamo trovarci nella condizione di avere già fatto una scelta definitiva, una scelta d’amore. Solo dopo che liberamente scegliamo questo, possiamo trovarci nella condizione di incontrare Dio, perché l’incontro con Dio è un incontro definitivo. Non possiamo vedere Dio è poi tornare indietro. Per questo nella vita terrena abbiamo contatti con le manifestazioni di Dio, il suo spirito, il suo figlio, le sue opere e le sue creazioni, capaci di parlarci di Lui, ma non con Dio stesso, che in questa vita terrena, non possiamo per la nostra misera condizione, né vedere né sentire direttamente.
Dio desidera la nostra presenza solo dopo che noi siamo veramente liberi di sceglierlo, ed in questa libertà, in nessun caso abbiamo bisogno di rimettere in dubbio la scelta. Mantenere allo stesso tempo piena libertà, libero arbitrio, e fermezza nella convinzione della scelta fatta. Non possiamo ingannarci né fingere in questo, pur in buona fede, perché la nostra scelta sarebbe solo parziale. Se ci sono parti di noi non ancora setacciate dalle prove della vita, non ancora illuminate dalla grazia di Dio, il nostro cammino di crescita spirituale deve continuare.
Le prove della vita quindi ci mettono in discussione proprio sulla nostra modalità di reazione agli insulti e alle ferite. Quando saremo con Dio saremo nell’assoluto dove non può esistere l’angoscia della prova, ma proprio per questo, per arrivare a Lui dobbiamo avere risolto l’angoscia della scelta.

Rimanendo quindi alle cose concrete, nella partecipazione ad un qualsiasi gruppo umano, siamo sempre in allerta per verificare i pericoli e le difficoltà che la partecipazione al gruppo comporta. Questo da un lato è utile, è sano, perché ci permette di non rimanere più del necessario in situazioni negative, e ci consente di andare via da situazioni oggettivamente persecutorie (quando ciò non abbia una finalità più grande che consapevolmente vogliamo portare avanti). Ma da un altro lato, la tendenza a fuggire dai rapporti e le situazioni sociali che ci feriscono, limita la nostra possibilità di crescita; infatti affrontando le situazioni di difficoltà, possiamo conoscere sempre più a fondo noi stessi, gli altri, il mondo, anche se ciò comporta sofferenza.
La tendenza alla fuga infatti può rimanere anche in situazioni di gruppo accettabili o nomali, e lo stress di questa appartenenza e di questa reciprocità può risvegliare angosce nuove ma anche molto antiche, dato che fin dalla nascita le angosce insorgono e crescono come reazione al disagio che deriva dal fatto che in nessun caso siamo stati così profondamente accuditi, rispecchiati, riconosciuti, così come avremo voluto. Tutti siamo stati fin dalla nascita almeno qualche volta feriti. Portiamo dentro il ricordo di queste ferite come nuclei di cellule che formano organi che funzionano e interagiscono con sempre al centro questa memoria di sofferenza. Quando la sensazione di pericolo insorge dobbiamo tenerne conto, anche se non è utile agirla istintivamente con una fuga. Ci sono gruppi dove proprio per favorire che l’esperienza sia interiorizzata, capita e scelta, e poi proseguita con consapevolezza, si consigliano periodi di lunghezza variabile di vacanza, di distacco, di riavvicinamento, che servono proprio a favorire la serena rivalutazione degli stimoli incamerati.
I gruppi sociali aperti consentono di avvicinarsi e allontanarsi tenendo conto delle necessità personali appena descritte, ma hanno anche il limite di non favorire l’emergere delle eventuali angosce non risolte di appartenenza o di distacco, che sono invece evidenziate nelle relazioni con accordi più strutturati, che presuppongono il prendersi un impegno.
Il pericolo di cui si parla è legato all’insorgenza di disaccordi e diversità di un certo rilievo, su cose di grande importanza per la persona. Nelle interazioni sociali è frequente arrivare a questo punto. Avere un disaccordo vuol dire che le due parti non collimano. Ci sono persone che pensano che la relazione per andare bene deve essere simmetrica, dove gli aspetti dell’uno e dell’altro collimano senza buchi e zone d’ombra. Questo per esempio capita nell’innamoramento dove pur non essendo vero che le due parti collimano perfettamente, si ha l’impressione che questo sia vero, e ciò favorisce l’instaurarsi di un legame nel quale le parti investono molte delle proprie energie. Quando nel tempo si verifica che riemergono le diversità, e nel rapporto si rendono più evidenti le zone d’ombra, allora può succeder che qualcuno pensi che sia arrivata la fine del rapporto, o si pensa di avere sbagliato nella scelta della persona, e una delle scelte possibili è quella di porre fine alla relazione per andare di nuovo alla ricerca della situazione ideale, del compagno mitico, del gruppo perfetto; se chiedi il perché, sentirai le tipiche frasi: “non era l’uomo per me”, “ non era la donna della mia vita”, “non era un vero amico”, “ da un genitore non me lo aspettavo, “non avrei mai creduto di avere un figlio così”. Si vive il dolore della diversità come inaccettabile, e si pensa che per porre fine alla sofferenza sia necessario cambiare l’altro, piuttosto che affrontare un cambiamento di se stessi e della propria capacità di influire sulla realtà esterna con un dialogo rispettoso dell’altro. La scelta che prima poteva sembrare definitiva, non è ora più tale, perché il disagio che si prova sta superando le capacità di sopportazione: “Non ce la faccio più!”.
L’importante è sapere che questa scelta è fra quelle sempre possibili; dire basta è una possibilità che non deve mai mancare, ma è anche vero che esistono alternative. Nel caso poi non fosse così facile mettere fine a quel rapporto, ci si augura perlomeno di essere arrivati ad una prova di crescita, e che non sia invece una situazione favorita dall’incapacità di assumersi la responsabilità di vivere secondo obiettivi sani. E’ il caso delle persone che pur vivendo sistematicamente in una situazione oggettivamente negativa, non prendono in considerazione la possibilità di parlare con qualcuno, o di manifestare l’intenzione di porre fine al disagio a costo di una separazione, svalutando quindi la possibilità di risolvere i problemi.
Ma rispetto al discorso che sto portando avanti, esiste il momento che nel rispetto della fedeltà nella direzione presa, si accetta di affrontare le difficoltà “a muso duro”, accettando gli insulti per trovare un modo di testimoniare in un momento immediatamente successivo la propria volontà d’amore, capace di andare al di là dell’offesa ricevuta. E’ l’occasione per conoscere più a fondo la realtà.
Nelle diverse culture religiose, esiste il periodo di prova, nella quale si accetta di privarsi di alcune soddisfazioni. Il nostro Io è messo alla prova. Allora, se abbiamo dei punti di riferimento possiamo fare venire fuori il conflitto che prelude alla crisi e alla successiva purificazione. Non possiamo purificarci se non facendo emergere il nostro limite. Se ci vergogniamo di manifestarlo, siamo bloccati e rischiamo di rimanere come sepolcri imbiancati. Abbiamo bisogno però dell’energia sufficiente e delle risorse che ci consentano di attraversare la prova; dobbiamo essere pronti, e la preparazione avviene mediante il riconoscimento di noi stessi e dei nostri bisogni, del nostro diritto di esserci e di manifestarci agli altri.
Non sempre però abbiamo intenzione di affrontare tutti questi fastidi, e spesso rimandiamo. Ma non possiamo compiere il processo di crescita senza affrontare la crisi, ed è vero che c’è un processo di crescita nell’affrontare un disaccordo. Potremo chiederci: perché nel disaccordo non posso trovare un modo di stare bene? O ancora, perché io non posso accettare di stare male, visto che ciò mi può aiutare a conoscermi meglio e a capire qualcosa che ora non conosco? Perché devo sempre arrivare a strappare le mie radici per spostarmi dove credo si stia meglio? Pensate all’esempio dell’albero, che nasce lì, e lì rimane per tutta la sua vita, che faccia caldo o freddo, non può spostarsi. Noi invece possiamo spostarci, allontanarci, ritardare, accelerare, abbiamo la grande possibilità di autodeterminarci. Abbiamo la grande opportunità di potere compensare alle diverse intensità degli stimoli. La nostra vita è per questo un bene prezioso proprio perché ci consente delle opportunità che non sarebbero possibili se non avessimo la vita ed il corpo fisico. La nostra essenza più profonda non potrebbe usufruire di questo dono se non avessimo la vita ed il corpo fisico. Infatti le diverse religioni e correnti spirituali sottolineano che nel momento in cui perdiamo la vita terrena, finisce in quel momento tutta la possibilità di crescita interiore, e si fanno i conti con il livello di crescita raggiunto. Se questo è sufficiente, si passa ad una dimensione superiore.
Quindi, va bene allontanarci da ciò che non ci piace, ma è importante capire che le possibilità non saranno infinite, e se vogliamo davvero conoscere più profondamente le diverse parti del nostro essere, abbiamo bisogno di vivere le diverse esperienze, compresa la dimensione della sofferenza. Oggi ho avuto l’occasione di parlare con una donna che fa psicoterapia e che frequenta un gruppo buddista, e che assume da un po’ di tempo un antidepressivo. Erano alcuni mesi che non la vedevo e devo dire che l’ho trovata bene, di bell’aspetto, in forma fisica. Mi ha detto: “Sai cosa ho fatto in questi mesi? Ho smesso di prendere l’antidepressivo, perché volevo sentire me stessa, anche il mio dolore. Volevo viverlo senza attenuarlo, sentirlo fino in fondo. Volevo sentire tutto l’odio che provavo verso mia madre, e mio padre. Ho deciso di affrontarlo, e riconoscere il mio risentimento, per poterlo abbandonare, e vivere il mio perdono. Inaspettatamente in quei giorni mio padre è venuto a trovarmi, e l’ho accolto con grandi onori. Quando mi ha salutato mi ha porto timidamente la sua mano, sapendo che non desidero la sua vicinanza, gli ho chiesto invece di salutarmi con un bacio. Mi sono sentita liberata.”
Lei ha deciso di attraversare la porta stretta, che tutti dentro di noi abbiamo, perché tutti noi abbiamo sofferto. Ha cercato di riconoscere i diversi livelli del disagio interiore senza rifiutarli, ed è arrivata alla consapevolezza di sé. Nessuno di noi è stato risparmiato fin da quando è nato dalle ferite, fin dal momento della prova del parto, poi la pappa, il bagnetto, le coccole, che non è possibile che siano arrivati sempre quando realmente ne avevamo bisogno. Non è possibile che i nostri genitori ci abbiano accuditi così come desideravamo. Quindi il rischio è di conservare il rancore e di essere convinti di essere in credito. Sia nella mente che nel cuore possiamo conservare la convinzione e la memoria del male vissuto, e questo giustifica continuamente il nostro odio. E quando qualcuno di nuovo tocca con il suo modo le nostre ferite, si riattiva un sentimento che non può essere evitato. Non possiamo farci nulla, non possiamo nasconderci dietro un dito. Riuscire quindi ad arrivare ad individuare la forma e le dimensioni di questa dura noce che in qualche luogo rimane dentro di noi, per poterla finalmente spaccare, e liberare quindi la nostra sofferenza, è una cosa difficile. E’ più facile cercare di cambiare gli altri, anziché cambiare noi stessi, ma la verità è che sull’altro non abbiamo alcun potere, se non quello di favorire che esso stesso maturi una scelta. Ma anche verso noi stessi siamo ciechi, e quindi inconsapevoli dell’unico cammino realmente possibile e utile: il nostro personale cambiamento. E’ bene che facciamo i conti con il nostro senso di onnipotenza che ci fa credere di potere cambiare il mondo, senza che conosciamo in realtà noi stessi; sarebbe più opportuno camminare nel sentiero che ci posta verso il nostro cuore, ma prima di arrivarci dobbiamo incontrare la nostra miseria, ed allora di nuovo il rischio è di rivolgersi di nuovo all’esterno per cambiare gli altri, o per cercare di distruggerli. E’ un meccanismo egoistico. Non possiamo infatti nel cammino dentro noi stessi evitare di trovare il nostro limite, il nostro punto di rottura, e siccome non possiamo annullarlo, la differenza sta nel quanto lo condividiamo o nel quanto lo nascondiamo, nel modo in cui lo conosciamo e lo gestiamo nel rapporto con noi stessi e con gli altri.
Qualcuno pensa che con le persone più vicine, non si debba verificare di sentirsi al limite, perché ciò per loro significherebbe che il rapporto non va bene. In realtà è vero esattamente il contrario. La mancanza di apertura e sincerità può anche essere scelta con la giustificazione che non si vuole ferire l’altro, ma in realtà si evita di affrontare un cambiamento che fa paura, perché preferiamo avere il controllo che esplorare. Abbiamo bisogno di controllo sugli altri, sulle situazioni e sulla vita, e non riusciamo ad affidarci alla vita. Temiamo per esempio di scoprire che l’altro sia realmente diverso dalle nostre aspettative, e temiamo di non potere sopportare la delusione. O si teme che l’altro rimanga deluso da noi e ci abbandoni.
Quindi, un’altra motivazione alla fuga dai gruppi sociali è proprio il bisogno di controllo su noi stessi. Ma il cammino terreno a cui siamo chiamati è proprio il superamento di questa paura. Perché abbiamo bisogno di capire che in questa vita non siamo noi a controllare le cose, ma esiste un’entità superiore che ci avvolge, e che conduce, e noi siamo inseriti “a tempo” in questa realtà, che avrà una scadenza.
Vedere le cose o le persone cambiare e quindi sfuggire al nostro controllo, è frustrante per chi non si sente pronto a questo tipo di perdita, che presuppone l’affidarsi ed il fidarsi. In preda a questo tipo di paura possiamo con la nostra mente fare fantasie negative, ed immaginare di essere distrutti o danneggiati anziché amati: con questo timore non riusciamo ad affidarci e vediamo negativo il perdere il controllo sull’altro. Abbiamo bisogno invece di affidarci per fare l’esperienza dell’amore di Dio: essere concretamente assistiti in un momento di seria difficoltà, quando non possiamo più contare sulle nostre forze, ci converte all’amore di Dio ed alla divina provvidenza. Questa esperienza fa nascere in noi una consapevolezza nuova, che ci incoraggia nella ricerca.
C’è una cosa che sicuramente non possiamo evitare: la morte. Essa ci può fare paura solo se non abbiamo ancora fatto l’esperienza positiva dell’affidarci e di essere accolti da qualcosa che è sovrannaturale. Un’altra cosa che non possiamo evitare è la vita. Affidarsi alla vita ci consente di lasciare andare il nostro essere e di affrontare le prove. Siamo attesi quindi da quel momento in cui siamo chiamati a scegliere se affidarci. Possiamo rimandare questo momento, ma pensate, prima o poi perderemo il nostro corpo, e con esso le nostre convinzioni. Ed allora, ci deve essere qualcosa che ha un valore più profondo di noi stessi, ma questo valore ci appartiene e ci riguarda da vicino, tanto che possiamo riconoscerlo dentro di noi, come un tesoro che è sempre stato lì a portata di mano, in ogni momento ed in ogni luogo, ma che potremo rischiare di non trovare mai.

Esercizio: ti suggerisco di leggere ogni frase e di riflettere prime di leggere il punto successivo.

1) Immagina ora di focalizzare un obiettivo importante della tua vita, il più importante che riesci ad individuare.

2) Pensa ora di potere perseguire fino in fondo questo obiettivo, e rafforza la convinzione e la motivazione.

3) Pensa ora che l’impegno e lo sforzo per perseguire l’obiettivo siano rappresentati dall’arrampicata su un lungo palo. Immagina ora di iniziare l’arrampicata.

4) Visualizzati nell’arrampicata, mentre sali piano piano, ogni tanto fermandoti a guardare il panorama.

5) Pensa ora di essere arrivato alla fine del palo. Più avanti non puoi andare perché non c’è più palo. Renditi ora conto che non hai ancora raggiunto l’obiettivo della tua vita. Come ti senti? Cosa fai?

6) Probabilmente, i vissuti ed i pensieri che hai fatto in conseguenza della situazione immaginata, sono caratteristici della tua strategia di vita nelle condizioni di difficoltà.


Tornando al tema, c’è un momento nella vita in cui ti accorgi che non puoi controllare il tuo cammino con le tue sole forze. Se il tuo vissuto è che qualcuno ti accolga nella prova, sarà più facile abbandonarti all’aiuto della provvidenza. L’aspetto spirituale consiste nell’avere fede nell’amore di Dio.
Qualunque sia la storia della tua vita, esiste la stessa possibilità di compiere il passo di conversione. Non dipende né dalla cultura né dalle conoscenze religiose o psicologiche.
Dipende invece dalla propensione a sperimentarsi. Percepire che c’è un’armonia dell’universo anche se non ne abbiamo chiari tutti i contorni.
Perchè allora non possiamo vedere Dio come esseri umani? Proprio perché all’uomo è stato dato il libero arbitrio, e la libertà non verrà in nessun caso tolta. Ovvero permane la possibilità di fare delle scelte, e di cambiare le proprie scelte. L’uomo possiede la libertà di cambiare scelte che sembravano definitive, perché il suo punto di vista cambia. Una scelta quindi può essere definitiva quando è una scelta del cuore, e questo è possibile solo dopo una totale purificazione, che ci consente di scoprire dentro di noi la fonte della consapevolezza, per cui non ci aspettiamo più da qualcosa di esterno a noi stessi la gratificazione di qualcosa di migliore per noi, e siamo capaci di prenderci la responsabilità di noi stessi. Quando troviamo questa centralità del nostro essere, non abbiamo più bisogno di cambiare, neanche se le cose dovessero andare male. Siamo pronti a procedere verso Dio, mantenendo la nostra libertà di scelta, e non abbiamo niente che più ci interessa cambiare, perché percepiamo di essere orientati verso l’assoluto. Dio allora più compiere la grazia di mostrarsi a noi, mentre siamo totalmente convinti di essere. Siamo totalmente convinti di stare lì.

(Questo articolo è stato anche pubblicato nel n° 66 della rivista “Appunti di Viaggio”. Per maggiori informazioni: www.appuntidiviaggio.it - appunti@appuntidiviaggio.it)

Piove.

Piove. Che sorpresa in questo sabato pomeriggio d’estate. Ma non dovrebbe fare caldo? Di solito il 10 Agosto la gente è impegnata a trovare un modo per fuggire alla calura, e andare in vacanza, dopo un anno di fatica e di impegni. Che lieta sorpresa per me, che stavo tranquillo senza nessun particolare programma, se non quello di riposare, leggere, e meditare. Guardo fuori dalla finestra la pioggia fitta e fine che scende, nella penombra di questo pomeriggio nuvoloso e deserto di città nel cuore di agosto. Sento che guardare la pioggia mi conforta. Apro la finestra, e sento il fresco venticello misto ad odore di pioggia e di terra, inconfondibile regalo del naturale incontro dell’acqua con la terra e l’erba.

Piove, e desidero guardare in profondità agli alberi in lontananza, ed i palazzi retrostanti. Mi incanto, come per rilassare il mio sguardo e i miei muscoli, evidentemente un po’ tesi. Così come la pioggia che scende, il mio corpo desidera lasciarsi andare, lasciarsi cadere. Desidero scorrere, sfiorare le foglie, la terra, gli oggetti che incontro, senza attaccarmi a nulla, ma semplicemente fluire, naturalmente. Mi immagino di essere acqua, che per sua natura fluisce nel contatto con le cose che incontra, con i corpi che nuotano in essa, con le radici delle piante sui bordi dei fiumi, e che nel suo scorrere saluta tutto ciò che incontra e che non rivedrà, ne possiederà.

Piove, e questa pioggia consola e rinfresca chi come me stava fermo nella quiete del pomeriggio, e non aveva da rispettare programmi e tabelle di marcia per andare chissà dove a fare chissà cosa. Si, è vero, ho bisogno di consolazione, ed è per questo che avevo scelto di non arrabattarmi in gite o partenze, che avrebbero contribuito a distrarmi e confondermi da ciò che per me più conta. Ho bisogno della tua consolazione Signore, magari regalata nel momento più inaspettato, dalla persona da cui meno me la aspetto. Come vedi, sono qui, seduto nella mia miseria, su ciò che resta del mio viaggio alla scoperta delle parti più ricche di me stesso, una miseria che finalmente riesco a riconoscere come mia. Mi conforta essere arrivato fin qui vicino alla verità, la consapevolezza del mio limite. Attendo il tuo dono di misericordia, di ricchezza d’amore, amore che è solo tuo. L’amore che io vivo, quello che trasforma le cose e le persone, viene da te. Per tanto tempo pensavo che fosse mio, e mi sono inorgoglito nel vedere ciò che riuscivo a fare. Ho accettato di vivere la prova, perché nel mio cuore c’era già la sensazione che non fosse tutto così come lo stavo comprendendo.

Continua a piovere, e mi piace continuare a guardare la pioggia. Arriva mio figlio, il mio bambino che ora ha due anni e mezzo, anche lui incuriosito da questo inaspettato piovere. Mi chiede di toccare la pioggia, anche lui evidentemente attratto dal suo fluire. Lo prendo in braccio ed insieme usciamo fuori per farci toccare dalle gocce che cadono. Lo stringo a me e giocosamente accentuo le sensazioni che il bagnarmi procura. Lui ride come sempre quando gioco con lui. Cosa sarà della vita che ci rimane da vivere insieme? Come potremo condividere il cammino che entrambi abbiamo da percorrere? Sento che l’essere padre significa amare e guidare, amare e gioire, amare ed imparare, amare e rinunciare per l’altro, amare e crescere insieme, amare e capire. Capire cosa? Capire che il dono ricevuto è incommensurabile.

Piove, ed ora avrei voglia di lasciarmi andare alla commozione, al pianto di gioia per essere riuscito ad essere qui, ad “essere”, qui. E pensare che avevo paura di riconoscere il mio essere nulla, non sapendo che da li sarei potuto andare verso la rinascita, verso la tua gioia Signore, che attendi con pazienza che noi ti cerchiamo per manifestarti umilmente il nostro peccato. Ci attendi per venirci incontro con le braccia aperte, per avvolgerci di te.

Piove, e mi accorgo che sono andato avanti con i miei pensieri, e che avevo voglia di farli fluire. Guardo la pioggia, le piante, le nuvole, ascolto il vento fresco, il rumore dell’acqua che scende e che scorre; penso alle bellezze della natura, che ci parla dell’armonia della vita, pur immersa in apparenze di dolore e di morte. So bene che siamo immersi in una realtà ancora di basso livello, dove tanta sofferenza non trova rimedio. Gli angeli, che con il loro spirito puro accettano la chiamata del Signore a darsi da fare per noi, per proteggerci ed aiutarci, sussurrano nel nostro orecchio parole di salvezza; ma quando ci fermiamo ad ascoltarli?

Fermarsi, ascoltare, sentire, capire, riconoscere, condividere le parole di vita eterna che il Signore in tutti i modi ci comunica, non è una cosa facile. Me ne rendo conto, mentre seduto davanti alla finestra aperta con la pioggia che continua a scendere, semplicemente “mi lascio sentire”. Riesco a lasciare ogni preoccupazione lontano da me, e semplicemente stò, così come faccio quando medito con il mantra. Medito, e la mia coscienza si dilata e si distende verso l’infinito, e di nuovo percepisco il mio nulla. Comincio ad abituarmi a questa sensazione, che non mi spaventa né mi turba, ma che riconosco come vera. Mi risuonano nella mente le parole sentite ieri nel vangelo della messa (Giovanni 4, 23-24): “Ma è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità”.

In spirito e verità… non so bene perché ma queste parole risuonano in modo particolare nella mia mente, forse perché da tempo mi accorgo dell’urgenza di essere sinceri e veritieri. “Il signore è vicino a chi lo cerca”, dice il salmista, ma come si fa ad essere vicini a qualcuno che non possiamo né vedere né sentire? Forse proprio in questo modo, essendo sinceri e veritieri.
Allora riuscire ad arrivare nella profondità del nostro essere significa attraversare il doloroso senso di sconfitta che deriva dal nostro riconoscere di essere miseri, e allo stesso tempo riconoscere l’altro aspetto della verità: la grandezza di Dio.

Che gioia Signore essere istruiti da te, che hai solo parole di vita eterna. Che gioia Signore avere voglia di avvicinarsi a te, impegnarmi perché io ed i miei fratelli possiamo scoprirti. E’ bello per me sapere che tu non vuoi il mio adattamento, ma la mia emancipazione. E’ per questo che il cammino è così lungo, perché tu mi lasci libero di scegliere. Anche la mia volontà diventa qualcosa che riconosce te come la fonte della vita, e non deve più compiere sforzi, ma soltanto fluire liberamente. Fluire, così come la pioggia, così come l’acqua che scorre e va al mare.

Mi accorgo che la pioggia è diminuita, forse non stà più piovendo. Ora ho voglia di alzarmi da questa sedia, e di scrivere subito questi pensieri. Ho voglia di farlo per poterli fermare nel tempo e nello spazio, per poteri rileggere. E perché anche tu, che stai leggendo queste righe, possa fermarti e conoscere questi miei pensieri, e viverli con me.

Psicologia della meditazione.

1 - Premesse psicologiche.


Per parlare di psicologia in campo meditativo, è opportuno fare dei brevi riferimenti ad alcuni concetti in campo psicologico. Esiste un Io, che si forma dall’impatto di quell’entità prodotta al momento del concepimento, preordinata geneticamente, col mondo. L’Io, durante tutto l’arco della vita, tende a condurre la persona secondo le sue convinzioni. La sua possibilità di capire la realtà è soggettiva, ed è condizionata dalla reale capacità di sapere, conoscere la verità, e dalla forza che si possiede di viverla e manifestarla. Per l’Io, un evento reale o immaginario, non hanno alcuna differenza, nel momento in cui lo interpreta come “dato”. La sua coscienza, la sua consapevolezza, sono più o meno ristrette.
Secondo il modello psicoanalitico il Super-Io, che struttura ma anche distorce e irrigidisce, e l’Inconscio, come entità sconosciuta che influenza la vita psichica, sono gli elementi fondamentali del funzionamento mentale e del disagio psichico collegato. Anche tutti gli altri modelli in campo psichico, si confinano nel loro svilupparsi al campo stretto del modello scientifico, pur essendo vero che il termine “Psiche” vuol dire “Anima”. Freud stesso nel formulare il suo modello, ammetteva di voler lasciare fuori qualsiasi aspetto mistico, che lui definiva in modo negativo come “occulto”. Desiderava fosse messo un baluardo protettivo verso l’occulto, e basava tutto il suo modello sulla pulsione sessuale.
Un grande passo in avanti si era fatto con C.G. Jung, che già durante i dialoghi e le discussioni con S. Freud sottolineava la opportunità di allargare il modello, e di integrarlo con gli aspetti spirituali: sentiva infatti dentro sé la spinta interiore dello Spirito, e ciò gli poneva forti dubbi sulla teoria grande S. Freud. Per tale motivo veniva accusato di misticismo.

Rudolf Steiner, spiritualista, si era accorto di questa apertura dedicando la sua attenzione a Jung in due conferenze. Massimo Rinaldi nel suo articolo “La Psicologia di C.G. Jung e lo spiritualismo di R.Steiner: due concezioni a confronto”, riferisce: “La scuola di Jung costituisce ancora oggi una delle poche scuole di pensiero in campo psicologico in cui l’immagine dell’uomo conservi una dimensione spirituale, in cui la vita dell’anima venga riconosciuta in quanto tale. Restituì dignità alla tensione dell’uomo verso il divino, all’autenticità del suo sentimento religioso, riconoscendone l’originalità e l’autonomia rispetto alle istanze psichiche, e rifiutando il riduzionismo sessuale freudiano ed ogni tentazione di negazione. Jung coniò anche, per denominare tale spinta interiore, il concetto specifico di funzione religiosa dell’inconscio. In secondo luogo egli comprese che le immagini psichiche possiedono una loro vita autonoma, ed individuò e definì, da un lato, i cosiddetti complessi, e dall’altro gli archetipi. Attraverso queste scoperte egli giunse quindi al concetto di inconscio collettivo, che risulta certamente ingenuo di fronte alle complesse concezioni e alle precise visioni steineriane, ma appare prezioso di fronte al “vuoto pneumatico” in cui versa la scienza attuale. In esso - l’inconscio collettivo - e nei suoi concetti archetipici egli riconosce di fatto l’esistenza e la specificità del mondo spirituale. Infine Jung concepì la personalità come qualcosa che oltrepassa l’Io ordinario – la piccola coscienza – che fa parte di quella come parte di un tutto, come ente tra gli enti, e chiama “Sé” questa entità interiore complessiva. Nel concetto di individuazione che è anche per Jung il fine ultimo della psicoterapia, egli racchiude il processo di armonizzazione e di adeguamento della personalità ordinaria dell’Io al Sé.”

Pierre Daco ispirandosi a Jung, nel suo libro “Che cos’è la Psicoanalisi”, parlando dell’inconscio collettivo dice: “L’inconscio collettivo non è mai malato, semplicemente perché è impersonale. Esso non appartiene all’esperienza individuale. Le rimozioni, i complessi, le inibizioni non si trovano mai nell’inconscio collettivo ma nell’inconscio personale. In fondo si potrebbe paragonare l’inconscio collettivo ad un essere gigantesco. Quest’essere sarebbe vissuto per migliaia di anni; dopo migliaia di anni sarebbe rimasto simile a se stesso. Con un solo sguardo abbraccerebbe la storia dell’umanità intera. Si ricorderebbe di tutte le esperienze umane profonde, di tutte le paure, di tutte le emozioni. Esso si troverebbe in ogni individuo; e noi, col nostro inconscio personale e il nostro Io, siamo immersi in questo inconscio collettivo per tutta la nostra vita.
Del resto riflettiamo un po’. Ecco un uomo di media età, quaranta anni per esempio. Prendiamo ora cinquanta uomini di quaranta anni e disponiamoli uno accanto all’altro nel tempo. Cinquanta uomini di quaranta anni = duemila anni ci riportano ad un tempo anteriore alla nascita di Cristo. E durante questo piccolo arco di cinquanta volte quaranta anni, diecimila guerre sono scoppiate. Miliardi di uomini si sono mescolati, decine di miliardi di differenti Io si sono agitati, hanno lavorato, sofferto, creato, sono morti sulla superficie della terra. Ma in questo gigantesco vortice di molecole umane, una cosa fu comune e inalterabile: l’inconscio collettivo, attivo, invisibile, che ha prodotto, a partire da una medesima sorgente, una proliferazione di simboli, di azioni e di emozioni.
Così, di ogni umana entità, la vita profonda, indipendentemente dalla razza, dalla religione, dall’intelligenza, è rimasta rigorosamente la stessa. L’inconscio collettivo è quindi formato di immagini psichiche, deposte come un sedimento vivente, attraverso i tempi. Si potrebbe riassumere dicendo che l’inconscio collettivo è un inconscio superiore. E’ una eredità mentale comune a tutta l’umanità, senza distinzioni di cultura né di razza. Questo inconscio collettivo si manifesta attraverso archetipi e simboli. In tal modo ci mette in contatto con la parte più intima dell’uomo, da sempre immutata.”

Come descritto da Silvia Schwarz, Jung fu mosso da una spinta interiore potente che lo ha orientato nel corso della vita, risultato delle sue attività introspettive condotte per tutta la vita. Steiner affermò che nei grandi uomini i difetti mostrano una paradossale coincidenza con gli elementi di grandezza. Jung non ammetteva qualcosa che non avesse egli stesso sperimentato; non poteva neppure ipotizzare l’esistenza di qualcosa che trascendesse la sua propria esperienza. Pertanto egli trovò il suo limite proprio nel non poter superare, con la comprensione, il livello della propria esperienza interiore, che, possiamo affermare con una certa sicurezza di giudizio, si situava a livello della coscienza immaginativa; nel non riuscire cioè, ad accogliere contenuti più avanzati sul piano della coscienza spirituale.
Jung, tuttavia, combattè il pregiudizio materialistico pseudo-scentifico trovando il conforto delle proprie esperienze interiori che hanno reso le sue formulazioni una scuola di pensiero con cui bisogna fare i conti.

In realtà esistono modelli dove l’aspetto spirituale è integrato nella sua architettura di base, e dove la guarigione corrisponde ad una conversione. E’ il caso dell’Enneagramma, a cui qui non faremo riferimento, ma al quale si rimanda. (leggi per esempio L’Enneagramma, edizioni paoline)


2 - Il viaggio spirituale: integrazione tra Io e vero Sé.


Con la meditazione compiamo un viaggio in un sentiero che ci porta ad incontrare il nostro Vero sé, così come descritto da Sr. Eileen O’Hea CSJ nella conferenza “The Spiritual Journey” a San Francisco nel 1999. Superare i limiti del nostro Io per arrivare nel profondo di noi stessi. Essere “uno” col divino amore, che va al di là della mente razionale, e del nostro ego. E’ una esperienza che non può essere descritta a parole, perché è il mondo della “non conoscenza”, che realizziamo nella profondità del nostro essere.

Chi è l’uomo? Come cristiani affermiamo che è il figlio di Dio, fatto a sua immagine e somiglianza. E’ animato dallo spirito di Dio, lo stesso del Cristo, lo stesso che lo ha portato alla sua morte e resurrezione, e che continua a vivere in ciascuno di noi. Entrare in contatto con questa realtà di base, significa sperimentare pace, gioia, amore.
Nella realtà quotidiana però non sono sempre questi i sentimenti che proviamo. Più spesso è l’ansia, l’angoscia, il senso di colpa, la paura che ci accompagnano. Il nostro ego è pressato da sensazioni negative, da convinzioni e automatismi, da schemi mentali che limitano e condizionano la comprensione della realtà. Sensazioni di essere sbagliati, di non andare bene, essere cattivi sono collegate all’ego. Esso risulta attaccato a questi schemi di pensiero, sotto la spinta di condizionamenti educativi, genitoriali, culturali.
Il viaggio spirituale è un riconnettersi col vero sé. Attraversare quel processo di cambiamento, che dura tutta una vita. Abbandonare gli attaccamenti dell’ego per essere uno con l’altro.
Il Divino ci cerca di continuo, ci attira a sé come una madre attira suo figlio, per essere uniti a lui. Ci attira per essere in unione, in comunione con lui. Camminare nel sentiero che ci riconnette al vero sé ci spinge ad arrivare sempre di più verso la consapevolezza contemplativa, che è interamente immersa nel luogo dove non c’è contrasto. E’ un’esperienza che può essere indicata, ma che non può essere interamente descritta. E’ la condizione dove la devozione e l’impegno sono all’apice, non sostenuti dall’ego.
Il momento contemplativo è un momento di non conoscenza. Non sapete che state conoscendo, perché non c’è nulla da mettere a confronto. Nel momento contemplativo non si domina né si è dominati, né si possono provare sentimenti di inadeguatezza. Siamo fatti per sperimentare questo. Provare sensazioni di inadeguatezza, di contrasto, di inferiorità significa che non riusciamo ad entrare in contatto con noi stessi, non riusciamo a fare una esperienza di contatto col vero sé, ma che siamo attaccati al nostro ego.
Nella consapevolezza contemplativa non c’è contrasto né paragone. E’ una realtà dove non c’è qualcosa di più alto o di più basso, di migliore o di peggiore. Non c’è qualcosa di più religioso o meno religioso. Siamo intessuti col vero sé in Cristo.

Il cammino della ricerca del vero sé e della sua integrazione nella nostra persona può essere schematizzato nelle seguenti dieci tappe.
1) Sulla spinta del Divino che sempre ci attira a sé sentiamo il desiderio di metterci alla ricerca della nostra parte più profonda, della nostra vera natura.
2) Mentre siamo alla ricerca cominciamo ad avere alcuni segnali, che ci incoraggiano nella nostra ricerca e ci rassicurano sul buon esito della ricerca.
3) In lontananza riconosciamo un aspetto della nostra profondità, del vero sé, è ciò ci spinge ad andare avanti.
4) Finalmente incontriamo da vicino il vero sé. L’Io ed il Sé sono in contatto. Riusciamo a cogliere che cielo e terra hanno la stessa radice. Avere trovato il tesoro però ci fa realizzare che siamo ancora fortemente legati al nostro ego, alle sue passioni e desideri. Siamo legati al nostro ego che giudica, odia, esercita potere sugli altri. Abbiamo a che fare con il ricordo sommerso dei vecchi traumi che hanno condizionato la nostra forma mentis, col nostro sentire di non andare bene. Più ci apriamo ad un approfondimento nella preghiera, più andiamo in profondità nel sentieri di crescita spirituale, più viene fuori l’Io che si fa vedere. Pensavamo che la preghiera ci rendesse più santi, invece andando nella profondità di noi stessi incontriamo le vecchie ferite, e vengono fuori i comportamenti collegati (acting out). Questa però è una dimostrazione che stiamo andando in profondità nel cammino spirituale. Più andiamo in contatto col vero sé più ci distacchiamo dal nostro Io.
5) Non siamo più dominati dall’ego, anche se siamo consapevoli di esso. Abbiamo la sensazione che ora le cose sono abbastanza bilanciate, si fanno i conti, si fa pace con sé stessi. Si comprende che “io sono anche l’altro”.
6) Il vero sé ci conduce a casa. Abbiamo trovato la verità, e continuiamo a fare ciò che stavamo facendo. Con animo tranquillo e gioioso ci lasciamo condurre. Non c’è un punto di arrivo; siamo in contatto col mistero divino. Non è importante la nostra età, ma l’apertura col divino. Questa esperienza del divino ci chiama a sé e coinvolge una esperienza di morte. Ogni volta che sperimentiamo una morte troviamo una nuova vita. Fare morire l’Io e gli attaccamenti, per rinascere a nuova vita. Persone che hanno problemi di dipendenza, arrivano alla scelta di distaccarsi e di rinascere a nuova vita. Trovare l’amore universale di Dio comporta un distacco, una morte da una persona o da una dipendenza.
7) Tutto è dimenticato, non vediamo più il vero sé ne l’Io. Il sentiero spirituale è oltre tutte le religioni, tutto ciò che ci siamo costruiti, compresi i modelli di Dio. La nuova vita ci porta ad un Dio che è al di là di ogni forma, ci porta dentro il mistero.
8) Vuoto. Tutto è andato, non avere nulla a cui appartenere o identificarsi. La notte buia dell’anima. Quando muore il nostro ego proviamo un grande vuoto, tristezza e dolore. Il distacco dall’Io deve passare attraverso questa esperienza di morte. I mistici dicono che l’esperienza di Dio non è Dio. L’esperienza di vuoto è quella che Gesù quando invoca il Padre dicendo: “Perché mi hai abbandonato?”
9) Si ritorna alla sorgente. L’ambiente è lo stesso di prima, ma siamo cambiati e vediamo la realtà in modo diverso. Gesù dice: “Nelle tue mani rimetto il mio spirito”. Non c’è trasformazione senza morte. La morte è legata alla fede, perché incontriamo la nuova vita. Il mondo è diverso, perché siamo entrati ad un livello di profondità prima sconosciuto. Andiamo verso una resurrezione che ci porta ad essere più svegli, più consapevoli di tutto il mondo e di noi stessi. Siamo in grado di comprendere il bene ed il male che facciamo. Conoscere il mondo, la sofferenza, la interconnessione di tutte le cose. Soffriamo per gli altri, perché siamo connessi con gli altri. Un indice che siamo in questa fase di profondità è che non sopportiamo più di vedere tutte le meschinità e l’egoismo, anche illustrate alla televisione.
10) L’uomo integrato e connesso al vero sé “ritorna in città” più saggio, più vecchio, pacioccone, distaccato dagli affanni, dagli schemi mentali. Ritorna diverso a causa della sua trasformazione. Siamo “costretti” a fare ciò che l’amore fa. Andiamo al di là di noi stessi, animati dall’amore per il servizio, dall’amore per gli altri. Il dare se stessi agli altri ci fa trovare sempre di più la nostra vera natura. Siamo persone generose. Abbiamo con noi una borsa piena di doni per gli altri. Non andiamo più alla ricerca del vero sé, ne siamo in contatto con lui, ma siamo integrati in lui. Mente e cuore diventano ciò che noi realmente siamo.


Il viaggio spirituale nella preghiera e nella meditazione quindi portano al distacco dall’ego. Esso non ti domina più.
Cristo ci incontra qui, nel buio della nostra vita. Per toglierci dalla sofferenza.